Guarigione terapeutica come ri-acquisizione di una identità diversa da quella intrisa di patologia, questo sembra essere il filo conduttore del libro che avete appena finito di leggere.
Ma che vuol dire identità?
La radice del termine riporta ad idem che significherebbe uguale, unitario, identico a se stessi, in una monolitica percezione dell’esistere, e agli altri cioè ai modelli personali e sociali che attraversano le nostre vite e identificandoci con i quali recuperiamo la sicurezza e appunto, l’identità.
Ma questa radice dell’identità non è sufficiente a sostenere una esistenza davvero genuina e priva di costrizione e di disagio interiore e sociale. Essa va bilanciata con l’autenticità, che è l’altra faccia dell’identità e testimonia la radice “autòs”: essere se stessi, unici e irripetibili, diversi dai modelli familiari e sociali, sfidando il cambiamento, la diversità, l’affermazione di sé verso una meta ideale definita anche se raramente goduta. Ma come ben sapevano i saggi pellegrini dell’antichità, il cammino è spesso più importante della meta, perché è quello che occupa davvero la nostra vita in attesa del fatidico faustiano momento finale di “autentica” realizzazione del desiderio.
Sarebbe facile, ma anche lungo esulando perciò dai limiti di questa postfazione, elencare i disagi esistenziali e le patologie psichiche che possono derivare dalla cristallizzazione di una di queste due dimensioni imprescindibili dell’identità e dalla loro mancata integrazione: da un lato, patologie basate sulla continua minaccia alla sicurezza e sul timore di perdere l’identicità; dall’altro disturbi derivanti da una separazione dall’altro violenta e fine a se stessa, e da una scissione interna non sanata tra sé reale e sé desiderato.
Le psicoterapie sono nate e continuano ad essere uno dei pochi ausili validi all’integrazione tra le due componenti dell’identità descritte: essere-con-gli-altri, senza schiacciarsi su di essi ed esserne schiacciati, solo per recuperare sicurezza che peraltro non è mai tale; ed essere-se-stessi, rischiando una vita autenticamente propria, unico patrimonio davvero nostro che possiamo portare nell’al-di-là, cioè nella trascendenza di noi stessi oltre i limiti dell’esistenza in cui siamo gettati.
Per rispondere ad una sfida così complessa, occorre una azione altrettanto complessa, lontana dal riduttivismo delle tecniche che non riescono a curare la persona, ma forse e a malapena solo parti di essa. Occorre collaborazione e integrazione intelligente di approcci diversi, come proposto in questo libro.
Occorre relatività dei punti di vista, che è diverso da relativismo e confusivo eclettismo; ma anche continua ricerca di costanti, cioè di regolarità presenti in tutti gli approcci e ritrovabili con tutte le tecniche: prima fra tutte la centralità della persona del terapeuta nell’interazione con la persona del cliente, e di questa interazione come mezzo per realizzare il cambiamento: al di là di come l’interazione è concettualizzata (alleanza terapeutica, transfert, empatia, attaccamento, teoria della mente …)
L’interazione e l’integrazione si realizzano anche a livello metodologico, nell’uso di strumenti diversi, dal questionario-intervista alla storia di casi (anzi, di “persone”), dal livello “micro” o idiografico della ricerca clinica come narrazione, al macro della logica quantitativa e nomotetica che riepiloga le costanti, per quanto essa è possibile e consentita nella ricerca sulla psicoterapia.
Il risultato dell’applicazione di quanto detto nelle pagine curate da Maria Mirella D’Ippolito e Anna Nazzarena Nardini è già noto a chi legge questa postfazione; e spero l’abbia apprezzato a prescindere dalle mie parole.
Ciò che le mie parole possono aggiungere è la soddisfazione nel vedere attuati alcuni dei princìpi cardine che presiedettero alla nascita della sezione italiana della Società per la Ricerca in Psicoterapia, costola della Society for Psychotherapy Research attiva a livello internazionale già da tanti decenni.
Princìpi che sono facilmente sintetizzabili come segue.
- Rinunciare al riduttivismo del metodo sperimentale e alla logica medicoforme dei “clinical trials” come mezzo principe per dimostrare che una psicoterapia è efficace.
- Associare “oggettività” come conoscenza intersoggettiva condivisa e soggettività come fondamento essenziale della consapevolezza del cambiamento.
- Considerare sempre in stretta unità il corporeo (genetico, biochimico, fisiologico) e lo psichico che lo trascende pur restando sempre pienamente immerso in esso.
- Integrare metodi e strumenti diversi per raggiungere lo scopo principale della ricerca clinica: comprendere il “senso” di quel che succede nel lavoro terapeutico.
- Tenere sempre presente la relazione – in tutti i suoi aspetti verbali, non verbali, cognitivi, emozionali, interpersonali, culturali – come elemento fondante della terapeuticità degli interventi, al di là delle specifiche tecniche usate per condurre la terapia stessa.
- Ultimo, ma non per importanza: non limitare la ricerca clinica ai ricercatori di professione, per lo più di collocazione accademica o ad essa vicini, avvezzi allo studio di laboratorio e propensi a considerare la clinica un laboratorio di ricerca, ma estenderla a chi vive quotidianamente della e nella professione terapeutica, e intende riflettere scientificamente su di essa.
Si può parlare di vera ricerca clinica solo se si realizzano questi obiettivi: e mi pare che in questo libro essi siano stati raggiunti. Non è merito da poco.
Santo Di Nuovo