Questo libro, da cui sono lontano soltanto per ineliminabili ragioni di età, mi ha stimolato a riflettere sulla ambivalente posizione di una quadruplice identità sospesa fra istanze metapsicologiche e analisi narrative.
Mi ha spinto a riflettere sul destino delle identità senza confini, sull’identità genetica(biologica), di genere (psicologica) e di ruolo (sociale), con una sessualità che si gioca dialetticamente fra natura e cultura, fra istanze metapsicologiche e suggestioni narratologiche.
L’identità è perennemente in statu nascendi, nel tempo e nello spazio, anzi nel crono-topo.
Oggi la profonda trasformazione dell’istituzione familiare (col passaggio in atto da una struttura gerarchica triangolare o edipico-patriarcale ad una forma poligonale a dinamica pre-gruppale), la frattura tra le generazioni e l’annesso fenomeno della subculturalità adolescenziale, la cultura della violenza, portata dalle frange nichiliste delle controculture giovanili, l’impatto dell’immigrazione e delle sue conflittualità anche socio-politiche, vengono a rallentare, nei più vari contesti, i ritmi di maturazione affettiva (capacità d’indipendenza), emotiva (di controllo) e sociale (accettare le altre classi di età). Si viene a profilare in modo quasi perentorio quella “crisi normativa dello sviluppo”, che Rogers aveva intuito e che già Erikson aveva formalizzato (1968) come “confusione d’identità”, dove la maturità individuale e/o psico-sociale ritarda sì da divenire quasi una mèta lontana.
Forse proprio per questo motivo (o causa?) stiamo vedendo sempre più spesso la psicologia adolescenziale e giovanile invadere un po’ tutte le età, nella nota forma di una “personalità infanto-giovanile” o, come dice A. N. Nardini, di una “unicità multidimensionale”: le nuove psicopatologie sanno che l’identità è sempre in fieri, liquida (come direbbe Baumann), destinata a relativizzare le nosologie dei vari DSM e IDC e delle varie teoresi psicoterapeutiche, aprendo ad una vera e propria multifrenia d’approccio.
Ciò significa dover risituare il luogo dell’esperienza fisica e dell’intenzionalità in uno spazio post-corporeo, una specie di cyber-spazio, ed attuare una comunicazione inter-umana simil-tribale, con radicale messa in questione dell’esperienza occidentale dell’io quale unità isolata e razionalmente autocosciente (proprio l’opposto del nganga del Burkina-Faso – cfr. Piero Coppo e Laura Faranda).
Come non pensare qui al rischio che anche l’adolescenza possa divenire un artefatto della cultura (già nel 1993 lo prospettava O. Gallant e ora, 2009, Giuseppe Galli)?
Per quanto concerne i fenomeni emergenti (o nuovi) della patologia identitaria giovanile, mi pare esservi accordo unanime nell’ascriverne l’incremento o la genesi alla concomitanza di più fattori socio-culturali (pensiamo al peso degli “emigrati di ritorno”). Allora dobbiamo davvero chiederci se oggi non stia emergendo nelle società occidentali una nuova fase di sviluppo umano, dotata di una configurazione psicologica e psicopatologica propria; dove è difficile precisare di volta in volta, nel disagio del giovane, se si tratti di adolescenza protratta (più o meno normale), di break down evolutivo, di sindrome borderline, o, con Foulkes, 1996, di distonia socioculturale: con ricadute evidenti nelle prassi psico-dinamiche, sistemico-relazionali, transazionali, gruppoanalitiche.
Ecco perché nella nostra attività di helping, di “relazione d’aiuto”, lo sguardo e la mimica, il percepire e il narrare, divengono evocatori di racconto, di quel raccontare che è con Baudelaire “alcôve obscure des souvenirs”, con Paul Valéry “souvenir de l’avenir”.
In tal senso la psicoanalisi è un’analisi narrativa o, meglio, è una variante del colloquio narrativo. L’anamnesi diviene “storia interiore di vita”, come ebbe a indicarci Ludwig Biswanger cinquant’anni fa; e le connessioni di senso interpersonali divengono (ed è Paul Ricoeur a ricordarcelo) “empêtrement dans les histoires d’autrui”, impigliarsi, connettersi esperito, con altre storie.
In ogni narranza (atto narrante) vi è già, quasi predisposta, la narrazione a venire, con la sua peculiare tessitura, pieghevole e fluttuante ai vènti del singolo e del gruppo, del terapeuta o dell’helper, che ne modellano la resiliency, la capacità di ripresa, la resistenza.
Mi pare che, a dirla con Pierre Fédida, una narrazione così intesa vada a riaprire connessioni viventi, ricostruendo il proprio passato in un legame che tende a sopprimere ogni linea di clivaggio, ogni sfaldatura, ogni zigrinatura, fondendo fattori e interazioni nella ricerc-azione.
Viene qui a confermarsi il concetto di realtà come costruzione coesistenziale, in un continuo mutare della nostra identità narrativa, che è, al contempo, fiction e storia vissuta, imago e vivencia.
Ciò evoca in me la svolta micropsicoanalitica di Silvio Fanti e di Nicola Peluffo, la psicoanalisi microscopica della fiorentina Stefania Turillazzi Manfredi (1979), e quell’indugio quasi martellante sulle evocazioni suscitate da ogni fotografia, in ogni tratto particolare, in un rimando di identificazioni e proiezioni, che ci riporta alla densità della sedia vuota di F. Perls o del “cliente” di Rogers.
Si fa qui evidente la pregnanza fenomenologia eidetica della “visione d’essenze” (la Wesenschan) di Husserl, che tanto deve coinvolgere l’attenzione del cousellor, dell’helper, dell’ausiliante: a cogliere le sequenze di ogni trama, sempre aperta al cambiamento, a ogni età, per ognuno con una propria sintattica, semantica e pragmatica (come tanti anni fa dicevo con Luigi Frighi, parlando della non-verbal communication, 1963).
Vorrei ricordare alle mie quattro Ninfe Egerie che è stato Maurice Merleau-Ponty a indicarci l’uomo come riserva inesauribile di significati, come sorgente inesausta di visioni, di “et encore cela”, di ponti che trapassano dalla fisiognomica e dallo spazio interiore alle prospettive dell’habitat e al cammino-verso-l’orizzonte.
In quest’atmosfera di sapere trasversale, col desiderio del ri-sentirmici incarnato, auguro a questo bel libro l’evidenza del successo.
Bruno Callieri