Nel ’76 Carl Rogers denunciava la «disumanizzazione crescente della nostra cultura, nella quale non conta la persona ma unicamente la sua scheda perforata e il numero della sua tessera assistenziale». Ma già dieci anni prima i Gruppi d’Incontro andavano incontro a quel bisogno sempre crescente di relazioni umane spontanee e autentiche, di trovare un nuovo senso e significato alla propria esistenza.
A maggior ragione, oggi, col prevalere sempre crescente della tecnica, delle neuroscienze, della mente neuronale, ci troviamo sollecitati a ricercare e soddisfare qualcosa che favorisca l’emergere di sentimenti e di emozioni profonde. Forse i gruppi d’incontro, auspicati da Carl Rogers, senza porsi un obiettivo specificamente terapeutico, potevano assumere un peculiare significato esperenziale ed esistenziale.
In trent’anni si è ulteriormente approfondita la critica alla psicologia comportamentista e al riduzionismo scientifico, si è estesa la visione critica verso la psicoanalisi ortodossa e verso l’eccessivo pragmatismo etico della filosofia americana. Ha preso sempre maggiore consistenza la costituzione relazionale della persona e, con essa, la consapevolezza della dimensione storico-temporale, dell’intersoggettività, della linguisticità, dell’intercorporeità, e (come da tempo amo dire) del confine di contatto, il confine del tra, come ci fu indicato da Martin Buber e dalla fenomenologia, specialmente da quella post-husserliana e della feconda scuola francese.
In questa seconda edizione del suo accattivante “Vincere Barbablù” (la 1° è del 2003) Mirella D’Ippolito ci ripropone narratologicamente (alla Wilhelm Schapp) l’invischiarsi di Saturnia nelle storie altrui.
Per lei, il rapporto rogersiano individuale e di gruppo diventa la sede in cui è possibile integrare la dimensione corporeo-emotiva e quella cognitiva. Dove, va bene ricordato, il gruppo d’incontro, di cui ha ampiamente discorso Maria Felice Pacitto nel suo recente prezioso contributo “Dal Sentire all’Essere” (ed. Magi, 2007), andrebbe considerato, anche, “il luogo della catarsi e della riparazione … una sorta di nuovo organismo con una sua anima, una sua struttura, una sua intenzionalità” (pag. 125).
E in questo denso e prezioso contributo la D’Ippolito ci addita un sentiero ininterrotto (non alla Heidegger) verso il senso di appartenenza (sono parte di), il senso di partecipazione (entro in relazione autentica con gli altri), il senso di competenza (mi autoesprimo, so di poter fare).
Questi inviti globali e a lungo termine sono il messaggio, empatico e simpatico, di una Mirella la cui presenza in me, suo lettore, non è categorizzabile.
Bruno Callieri